Just when I thought I was out... - The Many Saints of Newark


Di rado ma accadono nella storia dell’intrattenimento, quelle singolari congiunture astrali che vogliono nello stesso tempo e luogo, artisti ed attori nel loro picco creativo, produttori arditi o dalle mani meno legate, per creare quel prodotto che resta in cima alle classifiche nelle decadi a venire. Servirono ottantasei episodi, circa settantadue ore ai tempi a David Chase e colleghi, per dipingere con rara cura la costellazione psicologica non solo dell’immortale Tony Soprano, ma di tutto l’iconico cast di comprimari. Perché se certamente Anthony era I Soprano, I Soprano non sarebbero stati la stessa cosa senza la paziente esplorazione dei rituali privati, delle nevrosi ed i silenzi dell’intero parco di protagonisti. Ci approcciamo credo tutti oggi da spettatori, più consapevoli del formato televisivo, certamente disillusi riguardo alle numerose operazioni nostalgia degli ultimi tempi e quindi con più di qualche dubbio sul funzionamento di un prequel, che arriva a ora, quasi vent’anni dopo, e soprattutto in un formato diverso che inutile a dirlo, richiede accorgimenti strutturali per funzionare. {seguono spoiler}
Programmatica la scelta del titolo, che anticipa i temi di ciò che il film intende raccontare, ma che della **santità** o presunta tale dei protagonisti non dirà poi tanto, restando un giochetto di parole e poco più. Tralasciando la gang locale dei Saints, di cui resta solo la toppa sulla giacca di uno dei suoi membri, i _Molti Santi_ sono Dickie Senior, big earner del clan Di Meo e fresco di ritorno dal _paese_, ma soprattutto Dickie Junior, rispettato _made man_, sospeso tra le fantasie di allenare una squadra di baseball per bimbi ciechi e il fracassare mandibole rivali con un trapano. Tra i due, diventa presto oggetto di contesa la fiammante giovane moglie-trofeo di Senior, Giuseppina, sbarcata dall'Italia con il sogno americano in testa e idee precise su come realizzarlo. Attraverso di lei si realizzerà prima l'esplosione di antiche tensioni edipiche tra padre e figlio, ed infine la trasformazione del principe in re, richiudendo il cerchio della violenza da cui si sembrava essersi aperta una parziale via di fuga. Sullo sfondo, le tensioni razziali culminate nelle rivolte afroamericane del New Jersey del ’67 fanno da scenografia alla prima metà del film e da momento formativo per la nemesi-non nemesi del protagonista: il galoppino nero della mafia bianca Harold. Ed è già nella gestione del personaggio di Harold che si inizia a notare il tratto ricorrente del film: un certo senso di slegatura del racconto. Pur essendoci decenti spunti di costruzione del personaggio, che sceglie di declinare alla maniera del gangster la consapevolezza razziale e di classe ottenuta frequentando le riunioni delle pantere nere, anche quando questo interagisce con le altre pedine della scacchiera (vedi l'improvviso ed infine tragico affaire) sembra farlo sempre da outsider, lottando per un punto focale che non sa dove posarsi.
E c'è poi lui. Eelefante nella stanza ed _l'ingombrante_ lascito de I Soprano: il futuro boss Tony, che fa a gomitate per trovare spazio in una storia che non si capisce fino a che punto sia già la sua. Se nella prima metà del film il piccolo Tony ciondoli in secondo piano giusto il tempo affinché lo spettatore noti l’influenza che avrà su di lui lo zio Dickie JR (la posa da boxeur, i modi di dire), è nella seconda parte che il personaggio reclama, o cerca di farlo, maggiore attenzione. Tentativo faticato non a causa dall’interpretazione del figlio di Gandolfini, che nel poco che mostra, lascia intravedere ombre della memorabile intensità espressa dal Gandolfini padre, come nella scena con psicologa scolastica, spettralmente evocativa delle sedute psicanalitiche future interpretate dal padre, ma per la quantità e qualità del tempo a schermo a lui dedicato. Profondità e chiaroscuri della psicologia di Tony sarebbero poca roba se ci limitassimo a guardare il film (cosa anche comprensibile), e non sembra illegittimo notare come le crisi e il dilemma di fondo che lo attanaglino (come fare a non diventare i propri genitori?) non trovino una dimensione propria nel film, aggiungendo poco o nulla a ciò che già sapevamo. Analogamente, troppo poco lo sforzo di caratterizzazione per ciò che concerne lo zio Dickie, alle prese con una certamente comparabile battaglia interiore. Viene poi da chiedersi cosa possa dire di più l’aver girato quelle scene già raccontate nella serie, come il viaggio in macchina dove Johnny Boy Soprano (assente ingiustificato della seconda parte), spara più o meno per gioco alla moglie Livia, o ancora la versione estesa della prima volta che Tony vede il padre venire arrestato; scene forse di raccordo per i novizi a digiuno della serie ma scarsamente coese e poco significative per l'arco di Dickie.

    > *Did you ever wake up to find*
    > *A day that broke up your mind*
    > *Destroyed your notion of circular time*
    > *It's just that demon life has got you in its sway*
    >
    > Rolling Stones - Sway

I rimandi grafici e tematici alla serie invece sono abbondanti, a tratti stucchevoli come la ricomparsa in vari momenti del fatale ristorante Holsten’s (mentre gli Stones in sottofondo cantano di nozione circolare del tempo e del rimanere invischiati nelle cose), o ancora la consapevolezza fantasmica del Christopher Moltisanti neonato che piange alla vista del suo futuro carnefice; non manca poi un citazionismo al limite del memetico come il “He never had the making of a varsity athlete” del goffo Corrado Soprano, intento a minare le sicurezze altrui per coprire le proprie già da giovane, e la famosa imitazione di Michael Corleone per mano di Silvio Dante "Just when I thought I was out, they pull me back in!" che se possibile assume un valore ancor più simbolico ora.
Certo la qualità delle singole parti, ed in primis della scrittura, non è messa in discussione. Nei dialoghi poche parole vengono sprecate, e tornare anche su certe piccolezze pronunciate qua e là ci dice qualcosa in più sulla loro personalità (la rivendicazione del godimento proibito nel “_motherfucker_” di Giuseppina, le idealizzazioni di Dickie Senior verso la concubina), cosa che eleva il prodotto in ogni caso ad un certo standard a cui eravamo abituati; sempre amabili i motteggiamenti delle macchiette che già conoscevamo, e presenti qua e là piccole finezze che rendono vivida la narrazione, come l’aver fatto interpretare Livia Soprano (madre di Tony) ad un’attrice sospettosamente somigliante alla futura moglie Carmela, o ancora nella concezione dell’epilogo, che arriva non per via della guerra fra bande, ma per l’orgoglio ferito di un uomo frustrato, espediente nel pieno stile tragicomico e squisitamente umano dei Soprano. Buone in generale le prove attoriali, con un memorabile Ray Liotta nei panni di Dickie Senior, un po' meno forse in quelli del serafico carcerato gemello, personaggio utile solo per evidenziare il conflitto o la mitomania del protagonista.
In sintesi, scongiurato il rischio porcheria, che onestamente non temevo grazie alle garanzie dei nomi coinvolti (HBO quasi sempre garanzia), Many Saints of Newark nonostante sia stato pensato come un film, finisce per replicare in malo modo ciò che aveva dato il suo meglio nei tempi dilatati della serialità, vuoi per un'incerta gestione del minutaggio, complice l'inefficace divisione in due atti via salto temporale, vuoi per l'indecisione sulla direzione da prendere. Quando sul finale la storica sigla evidenzia il ponte con la serie, suggellando il patto di Tony con lo zio, non si può non essere colti da un senso di spaesamento per la velocità con cui questo arriva. Il percorso che porta il figlio a diventare padre, e il nipote a diventare lo zio, si diluisce tra le scene, e viene forse a mancare quel senso di gravità che la genesi di un personaggio di tale spessore meritava. Magari la serie tv che continuerà dove finisce il film di, cui si vocifera la prossima produzione, restituirà l'aria che è mancata per mostrare il percorso di Tony giovane, certo non passa quella sensazione che oltre la mera operazione di rilancio di un marchio, non ci fossero chi sa quali urgenze artistiche.


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